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  • evaromoli
  • 3 mar
  • Tempo di lettura: 2 min

Aggiornamento: 17 mar



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Quando sono nata pioveva da morire. Una pioggia dura e cattiva come solo la pioggia d’estate sa essere.

Tu eri piccolo e bellissimo. Con le tue magliette bianche sotto ai riccioli neri. Con le gambe cicciotte e i polpacci stretti nei calzini traforati, sempre candidi. Ti avevano portato a comprare i giocattoli. Per distrarti.

Quando sei arrivato io ero già dentro una culla e tu hai cominciato a piangere, perché non volevi una sorella, ma un cavallo. Non so se finto o vero, ma un cavallo. A me non mi volevi proprio.

Invece ti sono toccata io.

Adesso arriva per te un compleanno speciale e io, che non posso festeggiarlo con te, ti mando col vento dell’isola tutti gli abbracci che non sei capace di prenderti quando siamo insieme.

Ti perdono per tutte le volte che mi hai fatto piangere e anche per i messaggi vocali di 28 minuti, ti ringrazio di avermi accompagnato e di accompagnarmi in questa vita, mai generosa, di aver tenuto i miei segreti, di aver giocato con me sul balcone, di aver assaporato i profumi della cucina di nonna Nina, di aver imparato insieme da nostro Padre, di voler bene a nostra Madre, nelle forme che conosciamo, di essere venuto con me ai concerti, di avermi tradotto le prime canzoni di George Michael, di aver registrato con me le cassette dai video su Videomusic, di aver nuotato con me fra le onde, di aver condiviso con me estati indimenticabili, i panini coi wurstel e il checiap, di avermi raccontato segreti e dolori e gioie, di avermi insegnato ad ascoltare la musica vera, i pomeriggi con l’elleppi del concerto a Central Park di Simon & Garfunkel («The Boxer» a memoria), di avermi suggerito film da vedere da sola, libri da leggere, vini da bere, di avermi sempre detto (o scritto) la tua verità. Grazie di essere il meraviglioso e onesto e bellissimo fratello e uomo cinquantenne che sei.

Il meglio deve ancora arrivare. Noi saremo insieme qui a prendercelo!

Ti voglio bene.


Ps. Qui è già il 12 agosto!





 
 
 
  • evaromoli
  • 3 mar
  • Tempo di lettura: 1 min

Aggiornamento: 17 mar



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Amavi molto quella casa, ma solo quando eri arrivato da qualche giorno. Altrimenti non facevi altro che dire che quello sarebbe stato l’ultimo anno, che non aveva senso fare tutti quei chilometri per andare al mare, che la strada era troppo lunga, che portavamo troppi bagagli. E questo lo hai ripetuto per 18 anni. Ogni volta che ti trovavi a sudare allo svincolo per Lagonegro, oppure ci dovevamo fermare per il traffico a Scalea, ripetevi la solita frase «Quest’anno m’avete fregato, ma l’anno prossimo non me fregate più: non se po’ fa’ sta storia tutti gli anni pe’ veni’ in vacanza…».


Poi bastava la prima giornata di sole, il primo pomeriggio tranquillo a leggere il De Rerum Natura sotto l’olivo, che potevamo sentirlo dire «certo che però qui se sta bene… a quest’ora poi… tira un’arietta».


 
 
 
  • evaromoli
  • 3 mar
  • Tempo di lettura: 2 min

Aggiornamento: 17 mar



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Chiudere la porta a chiave e fare le scale. Due piani.

Attraversare il cortile, aprire il portone e sentirlo chiudersi sbattendo dietro di me.

Correre fino al semaforo, aspettare il verde e attraversare, camminare un pezzo di marciapiede e fermarsi ad aspettare il 30 express. Salire e timbrare il biglietto, cercare un posto a sedere e poi restare in piedi fino a Largo Argentina.

Attraversare di nuovo al semaforo. Controllare il biglietto e aspettare il tram dall’altra parte. Mi cade la penna Lamy verde sui binari. Si rompe il cappuccio e la rimetto dentro così. Si macchia la borsa. Salire sul tram e cercare un altro posto per sedermi e rimanere in piedi ancora. Attraversare il ponte, guardare il Tevere sotto sempre uguale a se stesso, marrone e fermo, annoiarsi su Viale Trastevere, aspettando di arrivare alla fermata. Arrovellarsi il cervello nel terrore di fare tardi. Ma tardi davvero.

Scendere e controllare la borsa. Aspettare ad un altro semaforo. Attraversare di nuovo.

Fare un pezzo di strada poi un’altra poi un’altra ancora, costeggiando i muri che separano il marciapiede dal giardino.

Girare a destra e camminare ancora.

Entrare sotto l’arco, fare un pezzo di giardino triste, arrivare all’atrio, fare due piani a piedi, entrare dalla porta a vetri, poi a sinistra nella porta ormai grigia, sul linoleum con i sandali, senza fare rumore, sempre diritto.

Terza porta a destra.

Tutto il tempo perso per arrivare da te quel 6 luglio. L’ultima volta che ti ho chiamato per nome «Papà», l’ultima volta che l’ho detto e l’ultima che mi hai salutato.

Ma abbiamo riso io e te, come sempre delle cose più stupide, il piccione fuori, il supplì avanzato, il giornale accartocciato, il bastone nell’angolo, le ciabatte sotto il letto nascoste.

È stato come vivere normalmente.

Solo in un altro posto.

E di noi ricordo il sorriso.

Il nostro ultimo regalo.




 
 
 

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